Dopo aver letto un paio di articoli da Altreconomia di Marzo 2024 mi è venuta voglia di mettere qualche riflessione qui.
Spesso penso che ci sia uno scollamento pazzesco tra quello che immagino, tra quello che credo di sapere e tutto quello che realizzo di non sapere nel momento in cui mi capita di approfondire leggendo un articolo, sentendo un’intervista o ascoltando un esperto. Penso anche che sia piuttosto difficile muoversi nel marasma informativo che pervade il nostro tempo e i nostri schermi. Cerco di orientarmi tra la quantità e le carattteristiche delle informazioni.
In questi mesi i post di Altreconomia hanno sempre attirato la mia attenzione e ho deciso di approfondire comprando la rivista in particolare perché la copertina di questo mese recita “C’è un’altra agricoltura (Il modello industriale uniforme e insostenibile è al capolinea. Le alternative sono già in campo). Già solo il sottotitolo comincia a farmi girare domande in testa tipo “quali sono le alternative che si possono realmente mettere in campo da parte sempre più agricoltori e non da un piccolo sparuto gruppo?”.
Tornando agli articoli collegati ad un’agricoltura alternativa si parla in particolare di risicoltura e di produzione di soia, due mondi che forse più di altri nel tempo si sono ammantati di miti, leggende e di una storia che ci raccontiamo che ci hanno raccontato che non pare corrispondere alla realtà dei fatti.
Per il riso…dal belvedere di Cantavenna (dove si trova il laboratorio), in questi anni mi sono sempre goduta lo spettacolo dei campi di riso allagati; un mare di riquadri di terra allagati che caratterizzano il paesaggio in maniera incredibilmente coreografica. Negli ultimi pochi anni invece questo spettacolo non si è visto più: eh certo perché adesso si coltiva in asciutta, manca l’acqua. Insomma io sempre sentita raccontare così e quindi sempre pensato fosse così visto che chi me lo raccontava il territorio lo conosce.
In realtà oggi Altraeconomica mi dice che “gli agricoltori hanno adottato il metodo di semina all’asciutta e il motivo non è la mancanza d’acqua. Da circa 10/15 anni la spinta del mercato ha portato alla diffusione di sementi cisgeniche collegate a specifici erbicidi il cui manuale di utilizzo richiede la semina all’asciutta perché in acqua perdono parte dell’efficacia.”
Insomma, già questa storia delle coltivazioni in asciutta per mancanza di acqua, almeno per quanto riguarda il riso, è lontana dai reali motivi per cui la scelta è ricaduta su questa pratica che ha più a che fare con una strada tracciata da chi detiene i semi, senza custodirli, ma modificandoli e creandoli in un laboratorio senza averli seminati, visti crescere in campo e raccolti per poi fare il calcolo di quanto hanno reso.
L’articolo prosegue dicendo che la “semplificazione del lavoro e massimizzazione della resa sono lo stesso concetto alla base della diffusione di sementi ed erbicidi associati che ha determinato il passaggio all’asciutta e in questo si tratta di capire quanto gli algricoltori siano stati liberi di scegliere 15 anni fa.”
Poi ci sono gli agricoltori che fanno scelte diverse e lo fanno da generazioni. Aziende come gli Stocchi di Una Garlanda che hanno anche sempre messo a disposizione una libera condivisione della loro visione e della loro esperienza vissuta in campo e non in laboratorio. Insomma “semplificazione contro complessità, unformità contro diversità e biodiversità. Non si tratta di fare bio perche vende più caro ma di voler produrre consumare e vivere in un paesaggio anche mentale diverso” (aggiungendo io che rispetto a questo diverso paesaggio mentale, solo andando oltre quello che non approfondiamo avremo la possibilità di scoprire e quindi praticare).
Anche la soia gode di una fama ed una narrazione molto precisa. La soia ci appare sempre come un ingrediente che viene da lontano, che in Italia si coltiva in maniera massiva e con le peggio modalità. Viene associata a tutto ciò che ha a che fare con gli ogm, con la deforestazione dell’amazzonia per nutrire gli allevamenti intensivi. Insomma è un legume che si è ammantato di una fama poco gloriosa, spesso veritiera ma non univoca. La soia scopro essere anche altro. L’Italia ne produce 1/3 dell’ammontare complessivo europeo, viene coltivato prevalentmente in nord italia perché le condizioni geografiche sono molto favorevoli ed è indubbio che molta genetica sia canadese e geneticamente modificata, ma i semi sono importati e adattati al nostro territorio continuando quindi a modificarsi a seconda delle condizioni ambientali e di lavorazione in campo.
E’ in realtà come tutte le leguminose una coltura molto efficiente e dal ridotto impatto ambientale perche ottimizza l’uso dell’azoto e resiste bene anche alle alte temperature anche se poi la maggior parte viene trasformata per utilizzo zootecnico e molto poco per uso alimentare ma questo fa parte anche della storia di questo legume da quando è arrivato in europa e negli stati uniti dall’Oriente. Negli Stati Uniti infatti è da sempre stata utilizzata prevalentamente per l’alimentazione animale anche se poi la ritroviamo in forma nascosta in tantissimi alimenti (carne, pesce, uova ecc).
Anche in questo caso, serve una visione differente per poter prendere strade differenti, per scelte differenti dal campo alla tavola e se vogliamo una narrazione differente dobbiamo iniziare ad aver voglia di ascoltare versioni differenti della storia perché è la storia a fare la realtà ed è chi detiene i semi che detiene il “vero potere”.
Se mi chiedo quindi quali sono le vere alternative da mettere in campo per poter praticare un’agricoltura differente, per poter strappare un pezzo di terra, di visione e di immaginazione all’agricoltura tradizionale, al modello dominante, non ho altre risposte se non che bisogna solo iniziare a farlo e bisogna mettere a disposizione liberamente i semi ma anche i saperi, le esperienze, le pratiche che non stanno nei manuali d’uso ma nei campi che coltiviamo, nelle riflessioni che facciamo e degli approdi ai quali arriviamo ogni benedetta sera in cui da quei campi torniamo per ricomnciare tutto da capo il giorno dopo e quello dopo ancora e ancora.